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La figura di Don Ferdinando 

Vi presentiamo una interessantissima selezione tratta dal libro di Mario Zannoni e relativa alla figura di Don Ferdinando di Borbone Parma, Duca di Parma e Piacenza. L'autore analizza con profonda competenza la figura di quello che è stato ritenuto il più parmigiano dei Duchi, evidenziandone le caratteristiche personali ed il contesto storico. L'autore con passione ha effettuato una articolata disamina del carattere del sovrano, evidenziandone un aspetto intimo e personale che approfondisce le c.d. "pieghe della storia".

Invitiamo quindi tutti coloro che desiderassero contribuire ad approfondire la storia dei Ducati di Parma e Piacenza e della Reale e Ducale Casa di Borbone Parma ad inviare articoli o pubblicazioni alla mail del nostro sito per permetterci di potere fornire nuovi elementi di un periodo storico sempre affascinante e ricco di colpi di scena.

Guido Agosti

Il Duca Don Ferdinando di Borbone (1751-1802)

Don Ferdinando fu il più religioso e il più parmigiano di tutti i duchi della sua casata.
Nato nel 1751 da un figlio del re di Spagna e da una figlia del re di Francia era stato educato, come è noto, da scelti precettori francesi che avevano cercato di farne il prototipo del sovrano illuminato. Il Condillac, uno dei suoi precettori, diede alle stampe il Cours d'études pour l'instruction du prince de Parme in ben 11 volumi. L'altro precettore francese era il Keralio, un ufficiale superiore dell'esercito d'oltralpe. Ferdinando non si mostrò un cattivo scolaro, mostrando più predilezione per le scienze che per la filosofia. Forse per reagire alla pressione esercitata su di lui il principe si orientò sempre più decisamente verso le pratiche religiose che costituivano per lui un'attrattiva irresistibile. Ad esempio, benché gli fosse stato proibito, giocava alla chiesa nella sua camera, sistemando nei vari ipotetici altari i santi più appropriati. A 10 anni sentiva "una vivissima brama di farsi frate" e, essendo un ammiratore dei domenicani, ascoltava "con gaudio" le campane della chiesa di S. Pietro Martire, per la qual cosa veniva regolarmente castigato. Per di più il giovane Ferdinando amava intrattenersi con la gente del popolo e aveva imparato anche il dialetto parmigiano. Questa era un'altra cosa disdicevole per un principe, per cui il Keralio lo rimproverò ancora una volta consigliandogli di mantenere sempre la distanza con i suoi sudditi. Il dovere del principe, gli dicevano, era di occuparsi degli affari di stato e non delle pratiche religiose. Ferdinando li avrebbe accontentati, ma per lui la religione rimase sempre la passione della sua vita e un fondamentale sostegno morale nella sua attività di sovrano.
Divenuto adulto Ferdinando mise in evidenza l'educazione ricevuta, che era effettivamente degna di un sovrano, ma egli rigettò totalmente le filosofie illuministiche. Era attratto dalle cose semplici, egli rimase un appassionato di dialetto parmigiano ed amava mescolarsi con la popolazione che lo ricambiava di un affetto sincero. Gli intellettuali e alcuni nobili lo avversavano perchè lo ritenevano troppo semplice, amante del volgo e della religione. Ferdinando amava fare lunghe passeggiate e viaggi sempre con obiettivi religiosi, spesso si trattava di visite di chiesa, ma nei suoi anni giovanili non disdegnava le feste da ballo, appassionandosi però solo per quelle dei contadini. Infatti a volte si organizzavano delle feste "riservate" dove il giovane sovrano ballava i balli popolari come la "monferrina" divertendosi con le giovani contadine. Il suo primo amore di adolescente fu infatti per una coetanea figlia di un contadino il cui terreno confinava con quello del palazzo ducale di Colorno.Questa predilezione giovanile per le belle contadine anziché per le giovani nobili, fu alla base di una certa stampa antiborbonica che riportò reiteratamente queste avventure nell'ottica di screditare il sovrano, tuttavia non è provato che queste brevi avventure fossero continuate dopo il matrimonio a dispetto di quanto scrisse fantasiosamente il Gorani nel 1793. Altra passione del giovane Borbone erano le feste in maschera a carnevale e a volte il duca mascherato si mescolava anche con la popolazione.
I suoi gusti riflettevano paradossalmente degli aspetti semplici, da popolano, assieme a attività raffinate adeguate al suo elevato livello di educazione. Era appassionato di poesia e di teatro e da giovane calcò anche le scene come attore. Con l'età si affermo invece la passione per l'astronomia (ed il suo osservatorio astronomico è ancora oggi visibile al palazzo di Colorno) mentre egli non disdegnava la ricerca d'archivio ove si recava ogni tanto col fido ministro Ventura ad "aprire qualche balla" di documenti.

Nei primi anni di regno del duca gli stati rimasero amministrati dal Du Tillot, ma la situazione iniziò a cambiare con il matrimonio di Ferdinando. Nell'ottica del "rovesciamento delle alleanze" avvenuto in occasione della guerra dei sette anni, i Borbone si imparentarono con gli Asburgo ed infatti Maria Teresa d'Austria "piazzò" tre delle sue figlie nelle posizioni chiave di Parigi, Napoli e Parma. Le nozze di Don Ferdinando nel 1769 con l'arciduchessa Maria Amalia non furono però felici.
La sposa, di cinque anni più vecchia di lui, più alta, piuttosto brutta, dotata di carattere lunatico e imperioso nonché di modi bruschi ed insofferente all'autorità altrui, non era certo la donna più adatta per il bonario sovrano parmense. Dopo i primi mesi di difficoltà la coppia comunque trovò un suo equilibrio e, tra il 1770 e il 1777, vennero al mondo quattro bambini.
Verso la fine degli anni '70 i sovrani vivevano ormai separati, il marito a Colorno e la moglie nella rocca di Sala Baganza, per cui la corte era divisa in tre parti. I servizi principali erano a Parma con due distaccamenti a Colorno e Sala, ovviamente questa divisione comportava un grande aggravio economico per le casse dello stato.
Maria Amalia non tollerava essere contrastata nelle sue idee per cui Ferdinando la lasciava volentieri a Sala dove passava il tempo in cacce assieme ai suoi adorati cani e cavalli.
Non era un mistero per nessuno che a Sala la duchessa fosse a capo del partito filoaustriaco che si opponeva a quello franco-spagnolo capeggiato dal Du Tillot. Il ministro in quest'occasione non si mostrò all'altezza della sua abilità perchè oltre a Maria Amalia si trovò contro anche Don Ferdinando che non apprezzava la politica anticlericale del suo capo del governo. Dopo la partenza del Du Tillot però Maria Amalia non riuscì più a giocare un ruolo politico significativo, se non, brevemente, nel 1799-1800 ai tempi dell'occupazione austriaca dell'Italia del nord. La duchessa infatti era talmente screditata che la gente valutava con sfiducia le sue uscite estemporanee. Amante del gioco e prodiga all'eccesso, prometteva mari e monti a tutti e poi si trovava a non potere mantenere quanto aveva assicurato di fare scontentando ovviamente tutti. Ella quando voleva aveva comunque una certa abilità nel far breccia nell'animo semplice del popolo che non restava insensibile ai suoi slanci estemporanei.
Maria Amalia era una donna sensuale che apprezzava in maniera manifesta il sesso forte e qui i libellisti dell'epoca, si scatenarono contro di lei con accuse di libertinaggio eclatante.
Di sicuro si sa che la duchessa apprezzava i militari, specialmente le guardie del corpo, ed un ufficiale di queste, il marchese Guido Cavriani, fu per un certo tempo, negli anni '70, suo amante.
Il problema più importante per Don Ferdinando furono però i debiti della moglie che arrivarono a cifre colossali, da un memoriale del 1789 risultava che i debiti erano pari a 799.059 lire, mentre l'assegno mensile della duchessa ammontava a 22.395 lire.
Il buon Ferdinando per evitare problemi personali e il tracollo finanziario limitò al minimo i contatti con la moglie e non acconsentì a pagarle i debiti, per cui quest'ultima si trovò a malpartito, con parte del personale e dei fornitori mai pagati che l'abbandonarono. Alla sua morte i creditori tempestarono l'amministrazione dei beni della corona con le richieste più disparate di risarcimenti.
Ferdinando era calmo e tranquillo, ma sino a un certo punto, quando riteneva che le cose fossero arrivate a un punto non tollerabile per un sovrano allora interveniva con mano pesante e anche a volte a sproposito, se le informazioni che aveva ricevuto non erano adeguate.
Ministri, magistrati e alti ufficiali furono tra le vittime delle sfuriate ducali, che nascendo da un uomo apparentemente bonario, erano temutissime dai suoi sottoposti.
Normalmente il sovrano si relazionava con i suoi collaboratori per gli affari di governo senza intoppi e, a partire dagli anni '80, aveva scelto persone di sua fiducia anche se dal suo carteggio risulta che a volte le prestazioni dei suoi funzionari erano inferiori alle sue attese. Questo problema era comunque un riflesso del modesto livello culturale e di preparazione tecnica generale del piccolo ducato padano, in cui il sovrano, che aveva ricevuto la migliore educazione possibile per l'epoca, svettava facilmente in mezzo ai suoi sudditi.
Tra i collaboratori del duca il ruolo principale era ricoperto dal primo ministro e a questa carica si succedettero varie persone, non tutte di vaglio. Tra questi il più valido fu senz'altro Cesare Ventura (1741-1826), la testa migliore del ducato come scrisse il Drei, che fu in carica dal 1787 al 1794 e dal 1795 al 1800.
Fu dalla fruttuosa collaborazione di don Ferdinando e Ventura se il ducato riuscì a sopravvivere sino al 1802, come un isola in mezzo ai domini francesi.
I due funzionavano come una coppia ben affiatata, il duca controllava le informazioni, suppliche, memoriali ecc. che gli pervenivano e, per le cose importanti, prendeva una decisione di massima, la scriveva e la inviava a Ventura che a sua volta l'avrebbe riflettuta sino al momento di incontrarsi con l' "Infante" (il duca era Infante di Spagna) per la decisione definitiva.
Don Ferdinando lavorava molto per gli affari di governo del ducato di cui voleva conoscere ogni cosa come riteneva che fosse il suo dovere. In certe giornate il numero di pratiche consultate e commentate superava la trentina. Di fatto il sovrano si occupava di tutto, richieste di grazia da parte dei sudditi che costituivano la gran parte dei memoriali che gli arrivavano ( e a queste richieste non diceva quasi mai di no), problemi giudiziari, economici, amministrativi, militari, della corte e casa ducale. Molto spesso si trattava di minuzie che avrebbero potuto essere gestite da funzionari, ma il sovrano riteneva fosse suo dovere occuparsene. Come scrisse il vescovo Turchi allora l'idea era che "il principe come capo di tutta la società ne riunisce in se stesso le forze. Egli solo si è il principio, il movimento e l'anima direttrice". Questo era proprio il ruolo che occupava don Ferdinando, le sue principali cure erano per il governo dei suoi stati che cercava di governare con la maggiore rettitudine possibile. L'altro grande impegno della sua vita era la religione che presso di lui aveva la funzione di sostegno morale ed anche quella della passione della sua vita. Il duca cantava nel coro di S. Liborio a Colorno, suonava le campane, scopava anche il pavimento della chiesa, faceva insomma il sagrestano perchè gli piaceva.
Come abbiamo visto egli aveva una spiccata simpatia per i domenicani, ma non mancava anche la stima per i gesuiti (anzi ex-gesuiti visto che l'ordine era stato sciolto nel 1773) ed infatti fece venire a Colorno dalla Russia alcuni di questi sacerdoti con cui amava consultarsi. A parte alcune eccezioni l'entourage religioso del duca non era composto da persone di grande valore.
Nei suoi contatti con i sudditi Ferdinando fu aiutato dalla sua conoscenza del dialetto e nei luoghi pubblici il duca era fatto spesso segno a manifestazioni di giubilo popolare. Gli abitanti di Parma vedevano però come un piccolo tradimento la permanente assenza del duca che risiedeva a Colorno. Quando il ducato fu minacciato dai francesi il popolo vedeva comunque in lui, non a torto, l'unico che poteva scongiurare la temuta invasione. In una occasione in cui il popolo si agitava di fronte al palazzo inneggiando al sovrano, il duca, non troppo a suo agio con le manifestazioni di folla, disse le storiche parole in dialetto: "Stì bo'ch'av contentarò tuti!" (state buoni che vi accontenterò tutti)
Il dialetto era un mezzo per avvicinarsi ai suoi beneamati sudditi e nel parmense il popolo minuto lo ricambiava adorando il suo duca, anche in considerazione del suo carattere bonario sempre pronto a graziare chi gliene facesse richiesta.
Sempre nell'ambito dei gusti semplici del duca non possiamo dimenticare la sua predilezione per la cucina parmigiana. Allora la corte era piena di cuochi francesi e la cucina doveva seguire la moda vigente per i sovrani borbonici che avevano Parigi come punto di riferimento. Il duca però amava notevolmente i piatti parmigiani e quando era ospitato da qualcuno durante le sue passeggiate faceva spesso onore all'ospite mangiando i piatti "nostrani" che per lui erano sempre graditi. Ferdinando non si limitava però solo a questo, infatti indossato il grembiule, si improvvisò cuoco con buoni risultati a quanto risulta da una lettera scritta al marchese di Soragna, in cui comunicava di aver fatto degli ottimi anolini.
Nell'ambiente di Parma e Piacenza i rapporti con la nobiltà locale furono sempre cordiali, ma senza che il sovrano trovasse troppo interesse in questa categoria di persone. I nobili al contrario facevano di tutto per avvicinarsi alla corte ove gli intrighi erano all'ordine del giorno con gruppi di personaggi che si davano da fare per porsi in vista presso il sovrano scalzando i concorrenti. Il duca cercava sempre di essere equidistante dalle "cabale di corte".
Nei contatti con le corti estere si esplicava l'attività più prettamente politica del sovrano che badava bene di stare sempre sotto l'ombrello protettivo spagnolo, mentre i rapporti con Austria e Piemonte erano piuttosto freddi.
La rivoluzione francese fu vista come un anatema dal sovrano borbonico parmense che inizialmente aiutò gli emigrati in fuga, ma successivamente, sospettando non a torto che tra loro vi fossero avventurieri o agenti della repubblica, non accettò più francesi nel suo stato.

 

 

Le giornate del duca giunto alla maturità erano scandite dal lavoro e, soprattutto, dagli appuntamenti religiosi; questa la scansione cronologica di una giornata tipo:
- Il duca si alzava alle 7 del mattino in inverno e alle 5 nelle altre stagioni.
- Andava in chiesa e recitava delle orazioni, l'epistola e il vangelo del giorno.
- Si faceva vestire e faceva colazione.
- Lavorava poi nel suo gabinetto agli affari dei suoi stati.
- Andava in chiesa a recitare le ore canoniche I e III.
- Lavorava nel suo appartamento sino alle 11.
- Andava in chiesa per la recita dell'ora VI e IX e per la messa.
- Alle 12 andava nell'appartamento dedicato alle udienze dei suoi sudditi.
- Pranzo ("ove non era mai intemperante").
- Lavorava per preparare i dispacci per i ministri nel suo gabinetto privato.
- Si trasferiva nella sua biblioteca a studiare.
- Andava in chiesa per i vespri.
- Se era buona stagione faceva una ora di passeggiata serale.
- Andava in chiesa per la recita della compieta e riceveva la comunione.
- Dopo "l'ora di notte" andava in chiesa a recitare il mattutino e le lodi.
- Tornava al gabinetto ove lavorava sino alle 10 e al termine spediva un dispaccio al suo primo ministro.
- Cena ("parchissima").
- Faceva conversazione sino alle 11 e 30.
- Prima di andare a letto pregava per dieci minuti con la famiglia.
Di fatto il duca passava come minimo tre ore e mezzo al giorno in chiesa e circa otto ore a lavorare agli affari di stato. Spesso lavorava anche alla domenica. Quando però vi erano problemi rilevanti all'interno del ducato era il governante a prendere il sopravvento sull'oblato domenicano e allora Ferdinando diradava le sue visite ecclesiali.
Due volte alla settimana faceva conferenze con i suoi ministri recandosi a Parma oppure facendoli venire a Colorno. Essendo gli uffici governativi tutti a Parma vi era sempre un viavai di staffette a cavallo o con carrozze sulla strada Colorno-Parma.
All'interno del ducato erano poche le persone che osteggiavano il duca, si trattava di intellettuali che sopportavano a stento lo strapotere clericale e il tentativo di don Ferdinando di mantenere la situazione esistente escludendo tutte le "novità" che il mondo moderno stava generando. In particolare era criticato il suo entourage religioso "santamente imbecille". Criticata era pure la cattiva gestione economica del ducato con un deficit di bilancio rilevante e un sovrano impegnato ad elargire elemosine e sussidi senza cercare di impiegare il denaro in attività utili per lo sviluppo dello stato. Il duca aveva poi il vizio di immischiarsi in affari religiosi o giudiziari senza avere la necessaria formazione per potere decidere correttamente. Il cuore tenero di Ferdinando lo portava anche ad essere ingannato da persone di pochi scrupoli che gli rivolgevano delle richieste fingendosi zelanti sudditi.
All'estero invece era diffuso lo scetticismo sul duca che era considerato un monaco mancato e sul quale si faceva della facile ironia. Non è improbabile che la nomea di "buon pastore" di Don Ferdinando presso i francesi, nel 1796 avesse supportato il pensiero di invadere un ducato ove non si sarebbe trovata alcuna resistenza.
(Testo tratto dal volume di Mario Zannoni, La "guerra" tra Napoleone Buonaparte e don Ferdinando di Borbone – La battaglia di Fombio 8 maggio 1796, Silva Editore, Parma, 2010).

 

 

Illustrazioni
1) Don Ferdinando di Borbone in età giovanile . Quadro del Baldrighi (Dal volume di Eugenio Riccomini, I fasti i lumi le grazie – Pittori del settecento parmense – Cassa di Risparmio di Parma Parma, 1977).
2) Don Ferdinando di Borbone in età matura . Quadro del Van Loo (coll. priv.).
3) Il ducato di Parma e Piacenza verso la metà del secolo XVIII. (Dal volume di Mario Zannoni, La "guerra" tra Napoleone Buonaparte e don Ferdinando di Borbone – La battaglia di Fombio 8 maggio 1796, Silva Editore, Parma, 2010).